Lo Specchio

Study by Louis Hector Leroux for his painting
 La pierre mystérieuse de Pompéi
La prima volta che entrai nella casa, il sole entrava obliquo dalle persiane e l’estate era appena iniziata.
I due genitori li ricordo appena. Sono come tracce sbiadite in qualche angolo della memoria. Ma di sicuro ricordo la casa. E il bambino, naturalmente.

Rimanevamo spesso soli. In realtà, era esattamente per quello che ero stata assunta: stare a casa con il bambino; in questa grande villa piena di stanze, scale e tappeti. La mia stanza preferita era una piccola toletta, comunicante con una delle camere da letto. L’unico mobilio era una grande specchiera, che sembrava messa lì al solo scopo di solleticare e appagare la vanità di chi entrasse. Mi piaceva sedermi davanti allo specchio e inebriarmi della mia stessa immagine. Il mio viso illuminato e riflesso, innumerevoli boccette, forcine, creme ormai seccate e pettini di tutte le misure. Di legno, di osso. Persino uno d’argento.
Non saprei dire perché la famiglia continuasse a trascorrere l’estate in quella grande casa al mare che, evidentemente, non avevano più il desiderio o i mezzi per curare. Sembrava che aspettassero che la casa distruggesse se stessa, una stanza alla volta. Che marcisse in silenzio e collassasse. Solo le stanze del piano terra erano agibili, ma solo per i tre mesi estivi. A dire il vero, non credo i signori avessero mai passato tre interi mesi in quel posto. Quello che so è che si aspettavano che ce li passasse il bambino.

Quando mi proposero di trascorrere l’estate in una grande casa al mare, occupandomi di un solo bambino non riuscivo a credere alla mia fortuna. E ancora oggi penso che lo sia stata, ma per altre ragioni che, all’epoca, non potevo sospettare.

Ci sono diversi tipi di bambini, così come ci sono diversi tipi di adulti. Alcuni vogliono subito la tua attenzione, ti prendono per mano e iniziano a mostrarti le loro cose. Altri no, sono silenziosi; talvolta persino diffidenti. Non c’è errore peggiore con loro che cercare di accattivarsene le simpatie. Per questo lo ignorai, come lui ignorava me.
La mattina lo svegliavo per andare al mare. Gli preparavo i pasti, sceglievo i suoi vestiti. Controllavo che leggesse e facesse dei compiti. Mi assicuravo che si fosse lavato prima di andare a dormire. Ma non era freddezza la mia. Solo rispetto.
Io trascorrevo il tempo esplorando la casa. Aprendo i cassetti e trovando cose dimenticate. Cose senza importanza, su cui fantasticavo in quei lunghi pomeriggi. Una vecchia ricevuta, un biglietto del cinema. Un guanto spaiato.
Ma i miei momenti preferiti erano l’inizio e la fine della giornata, quando entravo nella piccola stanza e sedevo di fronte allo specchio. Allora i miei capelli erano  molto lunghi. E, mi dicono, anche molto belli. Forti e lucidi, serici al tatto, di un bel marrone scuro. Dolcemente ondulati.
Non sono una persona vanitosa, ma sono sempre stata orgogliosa dei miei capelli. E mi piaceva usare tutte quelle forcine per acconciarli in maniera diversa. Del resto, avevo tutto il tempo del mondo a mia disposizione. La sera, invece, provavo piacere a spazzolarli. A lungo, senza fretta.

La prima volta che vidi il suo viso comparire in uno degli angoli dello specchio mi spaventai.
Non lo avevo sentito arrivare, non sapevo da quanto tempo fosse lì ad osservarmi. Forse mi disturbava anche un po’ che si fosse intromesso in quelle fantasticherie private.
“Cosa fai?” Gli chiesi. Ma senza astio o rimprovero. Con genuina curiosità
“Niente” rispose lui. Non era un bambino di molte parole. Comunicava soprattutto con i grandi occhi scuri, leggermente infossati.
Mi strinsi nelle spalle e continuai a spazzolarmi. Quando ebbi finito, mi alzai, lo presi per mano e lo portai a letto.
Lo rividi fare capolino nello specchio, alle mie spalle, pochi giorni dopo. Mi chiesi quante altre volte fosse successo in passato, senza che me ne accorgessi.
“Deve essere noioso per te stare a guardare qualcuno che si pettina.”
Dissi scherzando. Non ricordo se provassi un po’ di imbarazzo o meno.
“No” disse lui semplicemente.
Divenne una presenza costante nella stanza della toletta. Il mio viso al centro dello specchio, il suo più piccino, nell’angolo.
Un giorno, di sua iniziativa, venne a sedersi accanto a me, su un piccolo sgabello rivestito di broccato ingrigito.
Non diceva nulla, di solito, quando eravamo davanti allo specchio. Ma iniziò un po’ alla volta a passarmi i diversi pettini, o a scegliere le forcine che preferiva. Quella con la farfalla, o con il tulipano. A volte provavamo insieme le boccette di profumo, quasi tutte ormai evaporate, solo per gioco.
Non seppi mai davvero cosa passasse nella sua testa. Non avemmo mai quel tipo di rapporto. Ma iniziammo a trovare piacere nella compagnia dell’altro e non c’era dubbio che si fosse formato un legame tra di noi.
Anche se mi preoccupavo di dare una certa varietà in quella monotonia estiva, di portarlo con me al mercato o in paese, qualche volta al cinematografo, sapevamo tutti e due che le nostre giornate ruotavano intorno a quei due momenti, davanti allo specchio.
Una volta mi portò persino un fiore che doveva aver raccolto nel giardino e conservato per tutto il giorno, perché lo mettessi nei miei capelli.
Per fargli piacere iniziai ad alzarli sulla nuca, a ciocche, e fermarli con delle forcine. Volevo poi infilare il suo fiore nel centro, per mostrargli che apprezzavo il suo regalo. 
Ma lui aveva scosso la testa e con fermezza aveva rimosso le forcine. Io lo avevo lasciato fare, un po’ sorpresa, un po’ divertita. Finito di rimuovere tutti i pezzi della mia acconciatura, aveva preso di nuovo la spazzola e pettinato i miei capelli sciolti, poi aveva semplicemente posato il fiore dietro il mio orecchio, visibilmente soddisfatto.
Quella era stata la volta in cui avevo capito che gli piaceva la vista dei miei capelli completamente sciolti. Quando mettevo anche solo un nastro, per comodità, lo vedevo aspettare con ansia il momento in cui ci saremmo ritrovati tutti e due davanti allo specchio, e lui avrebbe sciolto il nastro non appena mi fossi seduta.

Ho un solo rimpianto, se ripenso a quei giorni. Una volta che ero insolitamente arrabbiata con lui, decisi di punirlo legando i miei capelli in una treccia strettissima, avvolta e appuntata. Non un solo capello libero. Lui rimase così sconcertato nel vedermi che scoppiò in un pianto dirotto, per la prima e unica volta. Mi sentii incredibilmente e stupidamente crudele e corsi ad abbracciarlo chiedendogli perdono. Quel giorno facemmo una visita in più alla stanza con lo specchio e io rimasi lì, seduta, finché non ebbe liberato la mia intera capigliatura.
Non so spiegare come mi affezionai così tanto a quel bambino silenzioso. Forse avevo pena di lui e della sua solitudine. O forse gli ero grata perché alleviava la mia.
L’estate passò più veloce di quello che si potrebbe credere. Non vedevo l’ora di tornare in città, ma, allo stesso tempo, soffrivo nell’abbandonare un posto in cui ero stata, a mio modo, felice. E mi doleva abbandonare il bambino a se stesso, ai suoi genitori-ombra. 

E ora è strano rientrare in questa casa, dopo così tanti anni. Le porte ormai marcite, tutte le cose di valore sottratte da gente di passaggio. Qualche graffito annoiato all’interno. Non mi interessa, la casa stava già morendo anni fa. C’è una sola stanza che spero sia sopravvissuta, un solo oggetto che spero di rivedere. Salgo le scale con un po’ di agitazione, ma intravedo già che il grande specchio è ancora lì. Persino qualcuna delle vecchie spazzole.

Mi siedo al mio sgabello. I miei capelli non sono più così lunghi né così belli. Un istinto mi porta a chiudere gli occhi, a non guardare la mia immagine riflessa. Non so cosa mi turbi ma ho paura di riaprirli. Soprattutto mi ripeto irrazionalmente che, per nessuno motivo, devo guardare nell’angolo dello specchio.

IX, vii, 16 (19, 20) Casa dello Specchio

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